associazione italia vietnam luciano sossai
ITALIA
VIETNAM
Comitato Liguria
circolo Luciano Sossai
UN DRAGONE APPARENTE
Norman Lewis aveva il dono di intuire dove le cose importanti della storia stavano per accadere, e di farsi trovare lì per testimoniarle. Nel 1949 questo luogo era l’Indocina, e in Un dragone apparente, da molti considerato il più bel libro dedicato alla regione mai scritto e uno dei capolavori della letteratura di viaggio, Lewis racconta in maniera magistrale una civiltà sull’orlo del baratro, stretta fra l’imminente crollo del colonialismo e le tensioni che porteranno alla devastante guerra del Vietnam.
Con uno stile inimitabile, leggermente ironico ma per nulla distaccato, Lewis restituisce al lettore una Saigon in cui la Francia coloniale si intrecciava con l’antichissima cultura orientale, in un equilibrio precario quanto affascinante. Si addentra poi nella foresta pluviale per documentare le popolazioni indigene sopravvissute all’abbraccio ambiguo dell'Occidente: i moï, i meo, i rhadé, i thai neri e i loro sconosciuti villaggi, le longhouse di vita in comune e le città nascoste. E ancora: Cholon, Vientiane, Luang Prabang, Phnom Penh e le rovine di Angkor Vat. Incontra imperatori e schiavi, brutali proprietari di piantagioni e sensibili ufficiali francesi, persino il papa del caodaismo, il culto che annovera fra i santi Victor Hugo. Su tutto incombe l’ombra lunga del Viet-Minh, invisibile e minaccioso come la tigre nella foresta, combattente per l’indipendenza mentre l’œuvre civilisatrice della Francia prende a sfumare nella tragedia di un mondo al tramonto.
Un capolavoro della letteratura di viaggio di tutti i tempi. La descrizione del tramonto dell’Indocina e la fine del mondo coloniale in pagine di indimenticabile intensità. Non esito a definire Norman Lewis uno dei più grandi scrittori, non di un particolare decennio, ma del nostro secolo. Graham Greene
Nel gennaio del 1950 Norman Lewis parte alla volta di Saigon per documentare il crollo del dominio coloniale francese in Indocina e quello che percepisce come il tramonto di un intero mondo di costumi, tradizioni e usanze.
Con l’eleganza e la sottile ironia che spingeranno Graham Greene a definirlo uno dei più grandi scrittori del Novecento, Lewis descrive i suoi incontri con personaggi dal fascino irripetibile: signori della guerra appassionati di fiori, il comandante delle truppe francesi che si abbandona all’oppio in una elegante fumeria di Phnom Pehn, l’ultimo imperatore del Vietnam, Bao Dai, a cui ci si presentava strisciando, o il re di Cambogia Sihanouk.
Quello che descrive è un mondo in cui “c’era una maniera giusta per fare ogni cosa, un protocollo garbato ma convincente, pieno di sottili allusioni e di sfumature nei gesti e nelle parole che sfuggivano al barbaro straniero”: un mondo che era già alla fine, e al quale l’intervento americano nel Vietnam darà il definitivo colpo di grazia.
Il dragone apparente per numerosi critici è non solo un esempio di magistrale eleganza letteraria, ma uno dei migliori libri di viaggio mai scritti. La sensazione di essere il testimone di un momento fatale della storia permea ogni pagina e rende irripetibile ogni descrizione. Norman Lewis non si fa intimidire da questo senso di fatalità, e compone quello che può essere considerato il suo vero capolavoro.
Nel 1949 un sipario sollevato per la prima volta poco più di cinquant’anni prima in Cina veniva di nuovo calato per un cambiamento di scena. Gli impiegati negli uffici delle compagnie aeree e di navigazione di tutto il mondo si videro arrivare pile di dépliant con l’ordine di timbrare la parola ‘sospeso’ sui nomi di luoghi come Shanghai, Canton, Kunming. In seguito avrebbero usato il timbro ‘cessazione del servizio’.
Se aveste voluto andare in Cina era troppo tardi. Vi sareste dovuti accontentare di leggere dei libri ed era tutto quello che della vecchia impenitente Cina avreste potuto conoscere. In quel momento i tecnici di sala erano indaffarati nel cambio di scena, e il lavoro avrebbe preso un mucchio di tempo. Quando il sipario si sarebbe di nuovo alzato avrebbe mostrato uno spettacolo irriconoscibile sia per un vecchio esperto di cose cinesi sia per Marco Polo. E venuto questo giorno, avreste avuto la sensazione che i viaggiatori curiosi si trovassero confinati dentro visite confezionate dallo stato, ad ammirare le meraviglie della ricostruzione – la fenice di cemento.
Adesso che la Cina era entrata nel fuoco della trasformazione, sembrava che l’esperienza di un viaggio in Estremo Oriente, per chi teneva a farla, non potesse più essere rinviata con tanta tranquillità. Che cosa restava ancora? Quale sarebbe stato il prossimo paese a intraprendere il processo di cambiamento che dilagava così rapidamente in tutta l’Asia? E quale paese vedere prima che abbandonasse la sua forma attuale? Pensai che la risposta fosse l’Indocina, resa ancor più interessante perché, al confronto con gli altri paesi dell’Estremo Oriente, su di essa era stato scritto molto poco. A metà gennaio del 1950, per non correre il rischio di ulteriori ritardi, mi imbarcai a Parigi su un volo Air France diretto a Saigon.
La mattina del quarto giorno la luce dell’alba si stendeva sui nostri volti mentre l’aereo scendeva attraversando i cieli della Cocincina. I passeggeri, irrequieti ai loro posti, non erano né svegli né addormentati, mentre il sorriso addestrato della hostess dava l’impressione di essere un po’ tirato. Riducendo i giri dei motori, l’aeroplano scendeva di quota da altezze ben oltre quelle alpine in una planata senza tremori, accomodandosi nell’aria nuova, mattutina, delle pianure come una libellula sulla superficie di un calmo specchio d’acqua.
Quando i primi raggi di sole penetrarono attraverso la foschia magenta che copriva l’orizzonte, il disegno in bianco dell’album aperto sotto di noi ricevette una mano di verde. Adesso vi erano tracciate linee con mano leggera. Una matita che disegnava gialle le strade e azzurri i canali. Un colonnello della Legione Straniera si era svegliato inquieto, lottando con muscoli facciali intorpiditi e ancora immobili per riguadagnare l’espressione rilassata di cameratismo, propria di un uomo dedito al servizio della violenza. Cominciò a interessarsi a qualcosa che vedeva in basso, svegliò un amico, sfregarono il finestrino e si misero a scrutare giù. Stavamo sorvolando una strada che sembrava avere stranamente delle tacche a intervalli regolari.
Le “torri di difesa” mormorò il colonnello sorridendo con un garbato apprezzamento. Alcuni minuti ed ecco un altro momento di interesse mentre passavamo sopra quella scacchiera diafana di campi e fossi. Giù nell’abisso, irreali nella loro lontananza, si vedevano alcune capanne addossate l’una all’altra dove si incrociavano le linee di quelle strade disegnate col righello. Dalle capanne saliva arricciandosi verso di noi uno sbuffo d’incenso. Per essere visto così bene da questa altezza doveva essere un’enorme fluttuante nuvola di fumo. Dei puntini erano disposti in cerchio nei campi gialli intorno al villaggio. “Une opération” commentò il colonnello, e mentre parlava sembrava che in qualche modo fosse psichicamente collegato con quello che accadeva là sotto.
L’autorità rifluiva in quella figura stanca per il viaggio; pervaso di questa essenza sacerdotale egli dominava sul resto dei passeggeri. Sotto i nostri occhi violenza veniva fatta, ma ne eravamo staccati quasi come dalla storia. Come il tempo, anche lo spazio anestetizza l’immaginazione. Come si poteva capire, un bombardiere è un bell’aiuto se si deve uccidere senza rimorsi. Era un’introduzione altamente simbolica al Sud-est asiatico.
Il dragone apparente, Norman Lewis © EDT 2015 Traduzione dall’inglese di Marco Sartori
MEKONG
«Proprio nell'aeroporto di Ho Chi Minh, gravato di emozioni storiche così importanti, e di relitti bellici d'ingombro e memento, l'anima
politicamente appena appena responsabile non può fare a meno di domandarsi, se le resta un barlume, un lume: Tanto sangue,
lacrime, bombe, distruzioni, lutti, e affaccendarsi, per poi rivendermi solo in dollari o marchi Chivas Regal o Pierre Cardin? E io neofrugale o post-tragico non so cosa farmene?
E non faccio neanche la fatica di mandare una cartolina con "Saluti da Saigon" a Debora in vacanza all'Avana con Jessica.»
Da quando gli Orienti sono diventati una discarica degli orrori dell'Occidente (con predilezione per luoghi
prodighi di massacri, come la penisola indocinese), il viaggiatore disincantato può trovarsi a riscoprire
immensi templi divorati dalla vegetazione, all'interno di campi minati e postazioni militari.
Accade soprattutto oggi, vent'anni dopo il conflitto in Vietnam, quindici dopo il genocidio in Cambogia, mentre l'Indocina si riapre agli stranieri e ai consumi e come l'Europa orientale e i Balcani mostra al mondo infastidito le atroci rovine economiche e culturali delle guerre ideologiche più violente e vane del nostro secolo.
Ma oltre al Laos rustico e arcaico sulle pittoresche rive del Mekong, oltre alla tradizionale guerriglia tra i feroci tirannelli regionali, i primi visitatori dopo i disastri moderni ritrovano deserti e sconvolgenti i mirabili templi khmer avvolti dalla giungla e resi leggendari dai resoconti di generazioni di viaggiatori.
Così oggi il sorriso arcano del Buddha, affiorante da antiche pietre, si accosta ossessivo alle ordinate scaffalature che espongono migliaia di teschi umani, nel vistoso monumento ossario alle vittime connazionali
degli anni 1975-1979. Boschi, bonzi, mercati, regimi, restauri, macerie: un viaggiatore contemporaneo lungo questo grande drammatico fiume sarà continuamente diviso fra le tragedie e gli incanti.
© 1994 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
IL VIETNAM TRA CINA E USA
Il nuovo numero di Limes si intitola "Il Vietnam tra Cina e Usa" ed esce giovedì 10 settembre in edicola, libreria, ebook e su iPad. È il numero 8/2015.
Il volume è dedicato al Vietnam, paese in rapido cambiamento, di cui l’Occidente , che ne ha un’immagine in gran parte stereotipata, fatica a cogliere l’importanza strategica e le molteplici sfumature interne.
La prima parte :"Cinesi, americani, russi ed europei nella partita asiatica" traccia il quadro strategico del Sud-Est asiatico e delle principali potenze esterne che ne contendono spazi e risorse.
La seconda parte :"Il mosaico vietnamita" analizza in dettaglio alcuni aspetti della strategia nazionale, che risente della perdurante divisione, culturale ed economica prima che politica, tra Nord e Sud.
La terza parte :"La partita dei mari cinesi" si concentra sulle dispute marittime che oppongono Pechino a molti Stati dell’area (Vietnam incluso) e che rappresentano uno dei principali motivi di frizione in Asia.
Nella parte extra-monografica Limes in più, un articolo sulla Tunisia di Luigi Giorgi dal titolo
"Sidi Buzid e la rivoluzione ripudiata".
IL CANCELLO
Il cancello non divide solo l'ambasciata francese da un viale del centro di Phnom Penh: separa un prima da un dopo, evoca la frattura lacerante che ha attraversatola vita di Bizot - trentenne ricercatore francese trapiantato in Cambogia sulle tracce delle più antiche tradizioni buddiste - quando il caso lo ha precipitato in un vortice di avvenimenti drammatici, cui semplicemente è sommo privilegio l'essere sopravvissuti.
Arrestato dai khmer rossi nell'ottobre 1971, mentre la sanguinosa guerra civile comincia a divampare nel paese, Bizot passa tre mesi in catene, in balia di uno dei più orribili carnefici del XX° secolo, responsabile della morte di 40.000 persone, ma che incredibilmente lo risparmierà, unico tra i prigionieri del campo.
Quattro anni dopo, quando i khmer rossi conquistano la capitale, Bizot si trova a svolgere la funzione di interprete ufficiale fra il console francese e le autorità occupanti, destreggiandosi in un'ardua attività di mediazione in una Phnom Penh sconvolta ed evacuata.
LO SPIRITO DEL VIETNAM
EDITORI RIUNITI © 1968 - A cura di Franco Calamandrei
Traduzione LUCA TREVISANI
Copertina GIUSEPPE MONTANUCCI
Pagine 139
Prefazione di Franco Calamandrei
In questi anni della guerra del Vietnam contro l'aggressione americana, da chiunque, amico o anche solo osservatore, abbia vissuto con i vietnamiti qualche giorno della loro lotta, è venuta la testimonianza di ciò che, senza timore di retorica, deve essere chiamato l'eroismo collettivo, innumerevole, di quel popolo. E del resto dai fatti stessi, al sud e al nord, di cui combattenti e popolazioni di quella terra sono protagonisti a titoli non molto diversi di gloria, la dedizione di tutte le energie alla causa della libertà sempre più è apparsa ed appare, nella moltitudine dei vietnamiti, non più tanto un dato di volontà quanto di senso comune, una componente principale del senso stesso della loro vita, del modo di essere uomini nella loro patria martoriata.
Ricordo, durante la prima guerra di liberazione del Vietnam, quella contro i colonialisti francesi, quando, all'epoca di Dien Bien Phu, ebbi la ventura di trovarmi là, come già allora mi colpisse l'esprimersi di questa qualità dell'animo vietnamita.
Ricordo gli eserciti di contadini che, notte dopo notte, con un ritmo di lavoro inarrestabile e quasi gioioso, tagliavano nelle montagne le piste, ritenute impossibili dai comandi francesi, sulle quali l'esercito partigiano portava le sue artiglierie verso Dien Bien Phu.
Ricordo la tranquilla e lieta risolutezza dei soldati popolari che, intorno alla piazzaforte colonialista, scavavano i camminamenti rivolti a investirne una dopo l'altra le posizioni, e poi, cambiata la vanga con le bombe a mano e il fucile, uscivano ad annientare con l'assalto ognuno di quei caposaldi del nemico.
Ricordo le tante anonime biografie che mi capitò di farmi raccontare, da uomini e donne, da giovani e vecchi, in cui la lotta incessante e mortale che le segnava, le privazioni, i lutti, spesso la prigionia e le torture, venivano evocati con semplicità straordinaria, come, proprio, una scelta che il loro essere vivi nella loro terra non avrebbe potuto determinare differentemente.
Ricordo questo, da cui furono colpiti e che testimoniarono altri come me già allora, per sottolineare che nello spirito del quale oggi vediamo animata la resistenza vietnamita non vi sono soltanto la sua intensità e il suo dispiegarsi dinanzi ai compiti del presente, ma vi è anche il suo passato, vi è la sua durata.
Sono i dieci, i venti anni ed oltre (dalla proclamazione dell'indipendenza contro la Francia nel 1945, dalla guerriglia, prima, contro i giapponesi, e prima ancora, dalla cospirazione, dalle ricorrenti rivolte antifrancesi) che quel popolo ha saputo vivere armandosi di quello spirito, non lasciandolo mai attenuarsi, temprandolo invece ogni giorno di più. Ed è proprio questo, che una intensità di eroismo cosi inflessibile e vasta possa manifestarsi al culmine di una durata così lunga ed aspra, ciò che rende meravigliosi la lotta attuale del Vietnam, i suoi sviluppi, I suoi successi contro la potenza dell'aggressore americano.
Da che cosa sorge, dunque, questo spirito del Vietnam.? Che cosa lo ha nutrito? Su che cosa è fondato? Sappiamo che le capacità di lotta e di sacrificio non sono un miracolo nell'uomo: sono una possibilità della sua natura, detta sua coscienza. Una possibilità che, quando la storia lo richieda, si esprime purché venga suscitata. E certo, la prima condizione per suscitarla è una buona causa, una causa sacrosanta come quella dell'indipendenza e della libertà per cui il Vietnam ha combattuto e combatte, una causa che già di per sé stessa unisce e chiama atta lotta masse molto estese.
Il collegamento con la prospettiva del socialismo di una emancipazione rivoluzionaria destinata non solo a spezzare le catene straniere ma a dare ai lavoratori, ai contadini, al popolo il potere, ha raddoppiato la presa galvanizzatrice della causa nazionale sull'animo vietnamita.
Sentirsi guardata dal mondo come un banco di prova detta crisi e del fallimento di imperi vecchi e nuovi, sapersi sostenuta da una solidarietà e da un aiuto internazionali crescenti delle forze socialiste, democratiche, di pace, avere dinanzi nemici sempre più isolati, ha alimentato nella lunga resistenza del Vietnam la fierezza, il coraggio, la fiducia.
Ma tutto questo, per quanto possa essere molto, per quanto ci indichi una grande parte delle condizioni decisive che hanno reso possibile quella lotta, non risponde ancora fino in fondo alla domanda. Com'è che quelle condizioni, quelle ragioni detta lotta, sono state portate a nutrire tutta una coscienza collettiva, a immedesimarsela, a farle riconoscere il proprio impegno civile e umano nel confronto interminabile con difficoltà inaudite, a dare insomma — ancora una volta — all'abnegazione e all'eroismo le dimensioni di uno spirito di massa?
Gli scritti di Ho Chi Minh qui raccolti forse offrono una chiave per rispondere. Essi vanno dal 1945, attraverso la guerra di liberazione contro i francesi, la vittoria del 1954, gli anni della costruzione socialista del Nord-Vietnam e del suo sforzo tenace per l'attuazione degli accordi di Ginevra, fino al 1959, alle soglie della nuova resistenza contro gli imperialisti americani, in quell'arco di tempo abbiamo guardato non tanto a scritti, discorsi, appelli di contenuto politico generale, interno o internazionale, quanto ad aspetti apparentemente più particolari dell'opera di direzione di Ho Chi Minh, espressioni più dirette e più tipiche, molteplici ed anche — ma solo nella forma — minute, di un metodo posto a sostegno di quell'opera e dei suoi grandi indirizzi di azione.
Abbiamo scelto questo genere di scritti perché in essi — mi pare — con singolare limpidità, si vede dispiegarsi in che modo, appunto, lo spirito del Vietnam fondamentalmente ha potuto essere suscitato, da quali radici ha potuto trarre la sua durata ed il suo sviluppo fino al culmine intenso di oggi.
Anche se queste pagine non raggiungono cronologicamente gli anni più recenti (per i quali non è ancora disponibile una raccolta ampia degli scritti di Ho Chi Minh che si presti al nostro particolare criterio di scelta), anche così esse sono di una attualità profonda, danno un filo essenziale per comprendere su quale fulcro di forza propria il popolo vietnamita abbia fatto leva per resistere al gigante americano, per colpirlo e umiliarlo netta sua tracotanza.
Se del metodo che si rispecchia in questi scritti vogliamo cercare una prima definizione, potremmo dire che il suo scopo è di animare ed allargare di continuo un tessuto estremamente vario di partecipazione dal basso, di persuasioni di massa, di responsabilità popolari. «...I pensieri e le azioni di ogni compagno hanno serie ripercussioni sugli interessi generali del paese. Una singola negligenza, una disattenzione, possono provocare gravi conseguenze» osserva Ho Chi Minh, aggiungendo con un vecchio proverbio vietnamita: «Un errore d'un pollice può determinare lo scarto di una lega».
Ciò che queste pagine chiamano ciascuno a garantire, in tutta la misura delle sue possibilità, è la reciproca di quella massima, perché da ciascuno nel popolo venga, pollice a pollice, il contributo di passione, di volontà, di intervento che farà avanzare la lotta lega per lega.
Uno degli scritti più esemplari in tal senso, netta sua drammatica concisione, è l'appello alla resistenza contro i francesi del dicembre 1946 («Entrate nella lotta con tutti i mezzi di cui disponete! Chi ha un fucile si serva del fucile, chi ha una spada si serva detta spada! E chi non ha una spada, impugni la zappa o il bastone! Ognuno si batta con tutte le sue forze contro il colonialismo, per la salvezza della patria!»): dove quella enunciazione dette armi diverse che possono e debbono essere impugnate pur di combattere, tutt'altro che enfatica, ha una ben precisa concretezza suscitatrice, è il richiamo atte potenzialità multiformi e reali della mobilitazione più numerosa.
Ma l'insurrezione, la guerriglia, non si fanno, non crescono e non vincono solo con i combattenti armati. Ciò che occorre è destare dovunque nel popolo la coscienza e l'orgoglio dei mille modi in cui si partecipa alla lotta, in cui si colpisce l'oppressore. Per cui (come nel messaggio «Agli evacuati») anche la rinuncia alle proprie cose più care, l'abbandono e l'incendio della propria casa perché il nemico non se ne serva, non è più un atto di disperazione ma di combattimento, un'affermazione della propria forza e già della propria libertà.
Nelle zone liberate le attività più antiche e usuali, il lavoro dei contadini, gli umili mestieri, vengono riscoperti atta luce della resistenza, esaltati dalla emulazione per combattere la carestia e assicurare rifornimenti alla guerriglia, per cui la fatica quotidiana del lavoratore trovi un senso nuovo di dignità, di iniziativa rivoluzionaria e di riscossa.
Le solidarietà più elementari (come nelle raccomandazioni «A proposito dell'accoglienza ai mutilati di guerra che tornano nei loro villaggi») vengono messe in valore, investite di una funzione responsabile e organica, tale da trasformare anche le piaghe della guerra in motivo di irrobustimento detta collettività. È una tessitura assidua, attentissima a cogliere con la varia inflessione dei suoi aspetti, delle sue parole d'ordine, dei suoi nitidi argomenti, le tante componenti detta vita del popolo proiettato nella lotta, senza mai dimenticare che, attorno agli interessi materiali, all'identificarsi della loro difesa con la causa detta libertà, la coscienza popolare è mossa anche da sentimenti, affetti, emozioni, tradizioni.
Non per una forzatura della nostra scelta, ma perché si tratta di scritti datati dai giorni iniziali della epopea del Vietnam, questa raccolta si apre con i messaggi «Ai bambini» e «Ai vecchi».
E che lì, all'inizio, il metodo di Ho Chi Minh venga attratto subito verso le due generazioni estreme tra le quali pulsano l'esistenza e la storia delle masse, è quasi emblematico dell'ampiezza e della profondità umane con cui la partecipazione è stata chiamata a sorgere dal cuore stesso del popolo vietnamita.
Tutto ciò che potrebbe essere d'intralcio e di diaframma a questo immedesimarsi della resistenza con l'animo popolare — il burocratismo, la corruzione, il favoritismo, l'abuso del potere, la violazione della legalità — viene avversato e denunciato da Ho Chi Minh quasi come una complicità con l'oppressore. «Amiamo il popolo, se vogliamo che il popolo ci ami e ci rispetti... — egli dice — ...Noi abbiamo il dovere di far penetrare profondamente nei nostri cuori l'amore per la giustizia e l'integrità». D'altra parte, la promozione della responsabilità del popolo non deve conoscere limiti, tantomeno esclusioni preconcette, deve fare il massimo credito alle qualità, alle capacità, alla iniziativa che possono essere risvegliate; «Cerchiamo di far emergere le qualità degli uomini, aiutandoli contemporaneamente a correggersi dei difetti. Facciamo come il falegname quando lavora il legno. Per l'abile artigiano, ogni pezzo di legno, grande o piccolo, diritto o curvo che sia, ha una sua possibilità di impiego particolare».
Il discorso — del novembre 1954, subito dopo la liberazione di Hanoi — agli impiegati vietnamiti della decaduta amministrazione colonialista, per il loro inserimento nella nuova amministrazione popolare della capitale, è un esempio di come questo criterio si esprima in un caso particolarmente difficile, trovando una fusione tra la fermezza nel richiedere a quegli interlocutori un impegno del tutto nuovo rispetto al loro passato collaborazionista, e la fiducia che la grande maggioranza di essi riuscirà a lavorare nell'interesse del popolo.
In molti di questi scritti l'attenzione di Ho Chi Minh si rivolge a sottolineare e illustrare la funzione dello studio, dell'educazione dei quadri e della istruzione di massa. Questo è naturale in un metodo che vede tanto più sicuro lo sviluppo della lotta quanti più sono gli uomini nei quali essa diviene consapevolezza delle sue ragioni, capacità di comunicarle ad altri, solidarietà di intendimento oltre che di atti, e quindi anche processo di cultura, conquista di conoscenza a tutti i livelli.
Non per caso la campagna contro l'analfabetismo motiva uno dei primi appelli del 1945, e poi di nuovo, nel 1956, ultimata la liberazione del nord, torna ad essere indicata come uno dei compiti centrali, per il consolidamento della repubblica democratica. Non per caso uno dei primi discorsi in Hanoi liberata è quello per la inaugurazione dell'Università del popolo.
Al di là del tema stesso, però, anche nelle pagine sulla funzione e gli obiettivi dello studio, significativa del metodo che le ispira è soprattutto la maniera, in cui quelle questioni vengono impostate e svolte: non come qualcosa da impartire e calare nei quadri, nei giovani, nelle masse, ma come una esigenza di maturazione già implicita in loro, prima che un dovere una predisposizione, che si tratta di rendere operante e responsabile. Ciò che emerge è sempre il tipo e il valore del rapporto stabilito tra la direzione e la moltitudine di coloro che essa chiama alla lotta.
Uno degli scritti che più risaltano in questa raccolta, se non forse quello di maggiore rilievo, è «Raccomandazioni al I° Congresso nazionale per l'educazione dei quadri», dalle quali mette conto citare un brano che è, da solo, magistrale: «Per insegnare alla gente che cosa è un elefante... si può descrivere minuziosamente il suo scheletro, la sua dentatura, il suo modo di vita, indicare la durata della sua vita e così via. Se però non si possono ancora insegnare tutti questi particolari, si può sempre far capire che cos'è un elefante descrivendolo attraverso le caratteristiche essenziali: l'altezza, tre o quattro volte superiore a quella di un bufalo, le zampe, voluminose come le colonne di una casa, le orecchie larghe come due ventagli, la testa con una proboscide e due organi di difesa, ecc.
In questo modo, gli allievi non potranno confondere un elefante con un gambero, un gatto o un bue. Meglio ancora, quando sentiranno parlare della caccia o della cattura di un elefante, non potranno pensare che ci si serva di ami per agganciare, o di giunchi o di bastoni per colpire la bestia». Molto più dell'indicazione didattica vi è, qui, una indicazione generale su come si sollevano e si portano all'iniziativa le masse. L'obiettivo di «colpire la bestia », l'obiettivo della vittoria — ecco il senso principale delle raccomandazioni di Ho Chi Minh — è un obiettivo raggiungibile purché ognuno dei « cacciatori », ognuno dei combattenti, veda sì la mole del nemico ma sia anche messo in grado di vedere dov'è che il suo braccio può colpirlo, qual è la sua possibilità di infliggergli un colpo.
Che risposta, insomma, ci viene da tutti questi scritti, dal loro sforzo penetrante e instancabile perché si riscuotano e maturino le qualità del popolo, perché sprizzi da ogni animo la scintilla di eroismo che può esservi accesa? È una risposta vigorosa e suggestiva — fra le più suggestive e vigorose, non esito a dire, del nostro tempo — di democrazia reale, di democrazia rivoluzionaria, di sollecitazione e organizzazione molteplici nelle masse detta volontà collettiva destinata a liberarle. Ed è una risposta di profondo umanismo, di rispetto, amore, esaltazione degli uomini, dì fiducia nella loro capacità di padroneggiare la sorte, nella fertile varietà delle loro persone, nelle tante loro esistenze e vicende dalle quali, anche, si costruisce la storia, e atte quali la dura azione per fare avanzare la storia deve sapere aderire, deve richiamarsi, raccogliendone in sé la forza viva, i bisogni, le aspirazioni, gli slanci.
Su queste basi, di continua ricerca democratica, di attenzione umanistica al popolo reale, vediamo qui diventare impresa possibile la creazione di un consenso di massa più partecipe, sempre più articolato e insieme sempre più saldo, intorno ai compiti nazionali e rivoluzionari di una lotta di liberazione di lunghissima lena, estenuante, il cui peso, a tutta prima, potrebbe sembrare sostenibile solo da una avanguardia di tempra eccezionale.
Su queste basi si capisce che l'avanguardia formata dai comunisti vietnamiti — come Ho Chi Minh ne parla nell'ultimo scritto della raccolta — abbia visto crescere le sue forze e la sua egemonia in mezzo al popolo in un modo, ancora, che sorgeva organicamente dal popolo stesso. E si capiscono l'unità, l'unione, di tutti gli strati nazionali che l'egemonia rivoluzionaria dei comunisti è riuscita a coalizzare contro gli oppressori, a mobilitare fino all'eroismo collettivo, ieri contro i colonialisti francesi, oggi contro gli aggressori americani.
La autonomia stessa del Fronte di liberazione nel sud, il suo autonomo sviluppo unitario e programmatico, il suo rapporto con le popolazioni, il dilagare sempre più impetuoso della sua lotta, non sarebbero stati possibili se non fossero provenuti da queste basi, senza queste radici.
Ecco dunque di che cosa si è nutrito e si nutre lo spirito del Vietnam. Spirito di uomini che, nel nome della loro libertà, sono stati portati a scoprire tutte le risorse di sé stessi, la forza dei sentimenti, il coraggio della volontà, la solidarietà dell'azione. Spirito dell'uomo: perché — ripetiamolo — quelle risorse sono umane, sono possibilità umane, non prodigiose. Ed anche in questo, nella conferma di questo, sta il valore, morale oltre che politico, del messaggio che viene dalle pagine di Ho Chi Minh.
Franco Calamandrei
VIETNAM ANNI 80
C'è un'opposizione politica in Vietnam? Quale «pluralismo»?
Perché i profughi? E i campi di rieducazione? Che fine ha fatto la «terza forza»?
Perché ancora tanta miseria nel Vietnam socialista? Come è avvenuta l'unificazione Nord-Sud? Quali errori sono stati commessi?
Perché siete intervenuti in Cambogia? Quali i rapporti con la popolazione cambogiana? Perché le vostre truppe non si ritirano? Qual'è la situazione attuale del governo di Heng Samrin?
Perché siete entrati nel Comecon? Perché non siete più in equilibrio tra URSS e Cina? Come si spiega la politica cinese?
A queste ed altre questioni poste da un gruppo di visitatori occidentali, risponde Nguyen Khac Vien, uno dei più prestigiosi scrittori e intellettuali vietnamiti contemporanei.
Sfuggendo ad ogni reticenza e diplomazia, domande e risposte entrano nel vivo dei temi più recenti, scottanti e polemici della questione indocinese e dei risvolti politico-ideologici che essi sollevano, ben al di là dei confini d’Indocina.
NGUYEN KHAC VIEN — Nato nel 1913 nel Vietnam centrale, studia e si laurea in Medicina a Parigi dove, per molti anni, svolge attività tra i suoi connazionali in Francia come dirigente del movimento patriottico contro la guerra dì aggressione francese in Indocina. Ritorna in Vietnam nel 1963. Durante la guerra americana svolge attività nel campo culturale e giornalistico ed è anche corrispondente dal Fronte. Direttore della collana «Etudes Vietnamiennes», ha scritto numerosi libri sulla storia, sulla letteratura, sulla cultura, sulla medicina e sulla pedagogia del Vietnam. Ha svolto le sue attività anche all'estero. Ha visitato quasi tutti i paesi dell'Europa settentrionale ed occidentale, compresa l'Italia, ed ha partecipato a numerose importanti conferenze internazionali.
Prefazione di RANIERO LA VALLE
RAMERO LA VALLE — Nato a Roma nel 1931, redattore capo e direttore de «II Popolo» alla fine del '60, dal '61 al '67 dirige l'«Avvenire d'Italia». Nel '76 è eletto senatore della Repubblica. Membro del gruppo della Sinistra Indipendente e della Commissione Esteri del Senato, direttore della rivista «Bozze», fa parte della presidenza del Comitato nazionale Italia-Vietnam. Si è recato due volte in Indocina: nel '72 in Vietnam, durante i bombardamenti americani, e nell'aprile del 1980 in Vietnam e Cambogia, dove ha raccolto ampio materiale di documentazione e girato alcuni filmati per la televisione.
PREFAZIONE
«Audiatur et altera pars»: sia ascoltata anche l'altra parte. Questa antica regola che non è solo del diritto processuale, ma è il fondamento di ogni processo di conoscenza e di analisi, ed è condizione del pensiero critico, la porrei ad emblema di questo contributo che ci viene dal Vietnam e che dall'Editrice Aurora è messo a disposizione dei lettori italiani.
Qui è il Vietnam che parla di se stesso, dopo che tanto (e male) in questi anni si è parlato di lui; e ha il diritto di essere ascoltato perché infine è un Paese indipendente e sovrano che si è conquistato il diritto di parola attraverso una lotta più che trentennale.
Se tra il 1945 e il 1954 il Vietnam non avesse avuto ragione del colonialismo francese, sarebbe oggi Parigi a parlare per lui. Se tra il 1965 e il 1975 il Vietnam non avesse avuto ragione dell'imperialismo americano, sarebbero oggi gli Stati Uniti (e, ahimè, con la voce di Reagan) a parlare per lui. Se nel 1979 il Vietnam non avesse resistito all'invasione cinese, sarebbe oggi Pechino a parlare per lui.
Dunque il Vietnam ha diritto di parola. Ma proprio adesso questo diritto gli viene negato da una coalizione di nemici ed avversari, quale esso non ha mai avuto nel passato, nemmeno nel pieno della guerra anti-americana; ed a questa coalizione si sono di fatto aggregati anche i mezzi di comunicazione di massa e le opinioni pubbliche dell'Occidente, che in larghissima parte avevano invece appoggiato o almeno compreso il Vietnam nella sua lotta per l'indipendenza, e comunque gli avevano dato voce; mentre voce al Vietnam avevano dato perfino i suoi nemici di allora, riconoscendolo come interlocutore nei negoziati di Parigi.
Oggi il Vietnam è espunto dalla coscienza collettiva, gravato di una condanna senza appello, esiliato dalla comunità internazionale, privato di parola. La condanna del Vietnam si trascina dietro un totale accecamento sia nel giudizio che viene dato sulla situazione nel Sud-Est asiatico (l'invasione cinese delle province settentrionali del Vietnam non suscita l'emozione e la reazione di quella sovietica in Afghanistan) sia nell'apprezzamento di quel flagello storico senza precedenti che è stato il regime di Pol Pot in Cambogia (si preferisce Pol Pot all'ONU invece di Heng Samrin, ed è vergogna dell'Italia essersi associata — non così la Francia — a tale ignominia; si preferisce il genocidio in Cambogia — che i Vietnamiti hanno bloccato quando aveva raggiunto la quota di tre milioni di morti — piuttosto che un governo filo-vietnamita a Phnom Penh).
Al Vietnam viene negato il diritto di parola. Quando, nell'estate 1980, il TG1 si è deciso a trasmettere tre inchieste filmate sul Vietnam e la Cambogia che avevo girato su suo incarico nel corso di un mio viaggio in quei paesi, le ha presentate in un contesto che infirmasse l'attendibilità del testimone, e travolgesse con la forza di una maggioranza di voci anche platealmente antagonistiche, non solo le opinioni ma perfino i dati informativi e documentari che emergevano da quei servizi. E giornali che pur si stracciano le vesti per le condizioni non libere e felici in cui vive Sacharov nella cittadina di Gorki, intervistano Khieu Samphan, l'ex capo dello Stato della Cambogia di Pol Pot, e gli fanno dire senza batter ciglio che i Khmer rossi «errori ne hanno fatti, massacri mai», e che le immagini che documentano la crudeltà del lager di Tuol Sleng, dove oltre ventimila persone sono state torturate e uccise, e gli orrori delle fosse comuni ancora piene di teschi e di ossa, sono frutto di... fotomontaggi!
Per rompere questa congiura di silenzio, di disinformazione e di ostilità, occorre, appunto «ascoltare l'altra parte». E l'altra parte non potrebbe esprimersi meglio che attraverso le parole di Nguyen Khac Vien, un fine intellettuale vietnamita che anch'io ho incontrato nel corso del mio ultimo viaggio in Vietnam, e di cui ho potuto apprezzare l'equilibrio, la profondità di analisi, e la capacità di farsi interprete non solo della storia e dei sentimenti del suo popolo, ma anche di una più universale cultura che dappertutto, nel mondo, oggi si confronta con i problemi della pace e della guerra e del rapporto tra istanze di liberazione e vecchi e nuovi imperialismi.
Ciò basta a dire come le analisi e le valutazioni di Nguyen Khac Vien debbano essere prese sul serio, anche se ciò non implica che si debba necessariamente concordare con ognuna di esse. Non c'è dubbio ad esempio che alla nostra sensibilità appare incompiuto e viziato un pluralismo che, come quello descritto da Khac Vien, comincia dopo la decisione di edificare il socialismo, e riguarda solo i modi della sua attuazione; tutto concesso alla diversità delle situazioni sociali e storiche, resta che nella elaborazione della stessa classe operaia dell'occidente (e in ogni caso di quella italiana), non solo l'attuazione, ma anche la via al socialismo, non può concepirsi che in un quadro pluralistico, e che anche il socialismo in via di realizzazione deve saper rimettere in gioco se stesso, non presumendo il consenso, ma affrontandone continuamente la prova; così come è acquisito che non basta schierarsi con l'Unione Sovietica per essere sicuri di trovarsi dalla parte della giusta causa della liberazione dei popoli. Tuttavia anche in questa materia più controversa, le posizioni di Nguyen Khac Vien non sono enunciate come posizioni di principio, ma come posizioni politiche, legate alle condizioni concrete dei rapporti politici e di classe, esistenti sia all'interno del Vietnam di oggi, che nel quadro delle sue relazioni internazionali. Allo stesso modo, per quanto riguarda l'intervento in Cambogia, Khac Vien si guarda bene dal giustificarlo in via di principio, in nome di una teoria dell'intervento o della sovranità limitata, ma lo spiega storicamente, con il concorso di una serie di circostanze, alcune altamente tragiche ed ultimative, che lo hanno reso non evitabile, se non al prezzo della rinuncia ad esistere di uno, e forse di due popoli.
Il discorso di Nguyen Khac Vien va dunque preso sul serio, come espressione autentica del Vietnam di oggi, di un Vietnam umano e reale, che, al pari di altri popoli, ha le sue virtù ed i suoi errori, ma a differenza di molti altri popoli si è trovalo e si trova ancora oggi a misurarsi con problemi colossali —dalle invasioni militari ai tifoni, dalla insufficienza alimentare al boom demografico, dall'arretratezza economica e tecnologica alla necessità di mantenere in efficienza un esercito sofisticato e moderno — e che deve affrontare questi problemi quasi da solo, davanti all'abbandono, all'ostracismo o all'aperta intimidazione e minaccia di quasi tutta la comunità internazionale, con la sola eccezione dell'Unione Sovietica e dello stretto campo dei suoi alleati da cui il Vietnam continua a ricevere sostegno e aiuto. In effetti, per quello che l'America ha lasciato nel Sud (cultura e costume), per l'inserimento del Vietnam unificato nel campo dei Paesi socialisti, per le potenzialità e gli appetiti che suscitano le sue eventuali risorse petrolifere sottomarine, per la sua collocazione nella geografia della fame e ai gradini più bassi del reddito mondiale pro-capite, il Vietnam ha nello stesso tempo, difficoltà e problemi che sono propri di un Paese del primo, del secondo, del terzo e del quarto mondo. Si può anche capire come non sia riuscito a realizzare il paradiso, appena cacciato l'ultimo americano da Saigon, e l'ultimo cinese da Lang Son. Ma esso va visto e giudicato fuori dei miti: il Vietnam non è più l'eroe incontaminato, il David vindice di giustizia delle ubriacature sessantottesche, ma non è nemmeno la «Prussia del Sud-Est asiatico», non è un succube strumento dell'imperialismo sovietico in Asia, non è un Gulag da cui fuggire a qualunque costo, come lo dipinge la propaganda occidentale, e tanto meno è un «divoratore di popoli e sterminatore di razze», come ancora oggi lo dipingono gli uomini di Pol Pot, che evidentemente proiettano sul loro avversario la propria stessa immagine. Il Vietnam è un Paese a cui l'uscita dal colonialismo è costata più che a molti altri popoli, un Paese che ha deciso di se stesso quando molti altri — nemici, amici ed ex amici — volevano decidere per lui; ed è questo che non gli è stato e non gli viene perdonato. Il suo essere esposto a nuove aggressioni dall'esterno, la sua debolezza economica, il suo deficit alimentare, i sacrifici comportati dal processo di transizione, le stesse asperità e chiusure del suo regime politico interno, sono una conseguenza di questa situazione.
Ma se le difficoltà in cui oggi si dibatte il Vietnam, di cui il Vietnam è vittima e non causa, gli vengono addebitate e rinfacciate come colpa, allora bisogna avere il coraggio di dire che quello che si contesta non è questa o quella scelta più o meno felice che il Vietnam può aver fatto dopo la liberazione, ma il fatto stesso di aver intrapreso e portato a compimento un processo di liberazione dal dominio coloniale, e di averlo fatto rompendo le regole di convenienza e di compatibilità vigenti tra le grandi potenze. Insistere in un atteggiamento vendicativo contro il Vietnam, vorrebbe dire davvero negare legittimità ad ogni tentativo di uscire dall'universo capitalistico e dalla sua versione coloniale o neocoloniale, vorrebbe dire non ammettere alcuna trasgressione al sistema degli opposti imperi e delle loro sfere di influenza, vorrebbe dire affermare che la storia si sospende e si ferma alle periferie di Washington, di Mosca e, ora, di Pechino.
Perciò noi crediamo che il caso del Vietnam vada riaperto; fuori, certo, dai miti di ieri, ma fuori anche dagli esorcismi e dagli anatemi di oggi; e vada riaperto proprio a cominciare da una onesta informazione, essendo quella dell'informazione, come ha scritto Gabriel Garcia Marquez, la guerra che, negli ultimi anni, il Vietnam ha perduto.
Rifare del Vietnam un problema per noi non significa però solamente rispondere a un debito che abbiamo contratto verso di esso; significa anche pensare a noi stessi, alle prospettive di questo mondo in cui viviamo. Il Vietnam e il Sud-Est asiatico non sono diventati periferici rispetto ai luoghi e ai punti di crisi in cui si decide oggi l'assetto internazionale e la stessa grande questione della guerra o della pace. Oggi, non meno di ieri, l'Indocina è un punto cruciale del destino del mondo.
Ciò risulta assai bene dall'analisi della situazione internazionale che, dall'osservatorio vietnamita, Nguyen Khac Vien svolge in queste pagine. La novità di questi anni è il prepotente ingresso sulla scena di un nuovo grande protagonista, finora escluso, la Cina. Ciò è avvenuto portando con sé una carica aggettivamente eversiva dei vecchi assetti e dei vecchi equilibri; il Vietnam ne ha subito, sul proprio stesso territorio, nelle regioni dei Nord, e ai suoi confini sulla frontiera meridionale con la Cambogia, i contraccolpi più immediati, ciò che spiega come la questione cinese sia divenuta per esso dominante.
Ma ben al di là del Vietnam, la carta cinese ha scompaginato il gioco dei rapporti tra le due massime potenze mondiali ed ha contribuito alla crisi della distensione e al ritorno della guerra fredda. Oggi l'ordine mondiale è a pezzi, e occorre costruire un ordine nuovo. Non c'è dubbio che in esso la Cina deve trovare un posto adeguato alle sue potenzialità e alle sue legittime speranze, ma è altrettanto indubbio che questo non può avvenire attraverso l'affermarsi di un nuovo imperialismo cinese che si faccia largo fra gli altri imperialismi esistenti, e tenda a giocarli l'uno contro l'altro al rischio di una catastrofe generale. Semmai la Cina pone il problema di un superamento e di un trascendimento della logica degli opposti imperi, per un nuovo e più alto modo di rapporti tra gli Stati ed i popoli, le loro potenze, le loro economie e le loro culture.
Questo è il problema di politica internazionale finalmente adeguato alla qualità e gravita dei problemi di un mondo giunto all'età nucleare, dove ogni giorno di più si allarga la forbice tra minoranze ricche e maggioranze povere, tra diminuzione delle risorse e aumento della popolazione mondiale. Non si può continuare a far finta di credere che il problema principale degli anni '80 sia «l'espansionismo sovietico», anche se su questa idea si possono ancora vincere le elezioni americane e si possono stabilire corrispondenze di amorosi sensi tra patiti della NATO ed eredi di Mao. La contraddizione principale è oggi quella tra Nord e Sud del mondo, il problema vero è quello di ridare al mondo un'ipotesi unificante e pacifica di convivenza, di sviluppo, di corresponsabilità, attraverso le vie della politica, della paziente soluzione dei conflitti, di una risposta alla crisi della convivenza tra i soggetti antagonistici, come del resto cerca di fare ogni comunità nazionale riguardo alla propria vita interna.
In questo contesto la Cina non può entrare come un nuovo e inquietante ingrediente del sistema di guerra, ma deve essere assunta come prova e argomento della indifferibilità della pace.
Il messaggio che viene dal Vietnam ammonisce allora a non allevare apprendisti stregoni, con il falso calcolo di potersene un giorno servire: il problema non è di suscitare nuovi stregoni, soprattutto se hanno le dimensioni della Cina, ma di riportare alla ragione i vecchi; sicché ogni popolo, piccolo o grande che sia, possa uscire dalia paura, e vivere in pace dentro alla storia di tutti.
Raniero La Valle novembre 1980
DALLA TERRA DI NESSUNO
1975, Hameau de la Montagne, un villaggio del Vietnam centrale.
Mien, giovane moglie di un ricco proprietario terriero, sta tornando a casa dopo una spedizione nella foresta. Di fronte alla sua abitazione c'è una folla di persone.
Gli sguardi di tutti sono puntati su di lei: la fissano vecchie e bambini, vicini di casa e contadini. Dall'interno della casa una voce, stranamente familiare, la chiama per nome. Mien è come paralizzata: quella voce appartiene a Bon, il primo marito, dato per morto in guerra molti anni prima. Si è trattato di un tragico errore: l'uomo, fragile e malato, è tornato a reclamarla, ben deciso a far valere i propri diritti. Ma Mien, ora, è sposata con un altro, Hoan, da cui ha avuto un figlio.
Di fronte alla pressione della comunità e delle autorità di partito, Mien decide di sacrificare il suo amore e torna con Bon. Ma dimenticare Hoan pare impossibile.
Questo tragico scherzo del destino segna l'inizio dell'indimenticabile romanzo di Duong Thu Huong, la più famosa scrittrice vietnamita. Sullo sfondo di un paese lacerato dal conflitto e di una società imbevuta di principi morali e politici, s'intrecciano i destini di tre personaggi inesorabilmente legati dall'assurdità della guerra.
Attraverso una scrittura evocativa e una sontuosa descrizione di suoni, odori e colori, Duong Thu Huong tratteggia la figura di una donna che cerca di conciliare la propria felicità con i valori tradizionali, una donna in bilico tra desiderio e compassione, dovere e sacrificio, rabbia e amore, che diventa l'emblema di un intero popolo, immolato sull'altare della guerra.
"Nei suoi intensi libri la ferma critica politica e sociale si unisce all'evocazione di un paesaggio incantevole" (Claudio Magris)
"Duong Thu Huong è considerata dal regime di Hanoi una sorta di bomba a orologeria. Il crimine di questa donna piccola e minuta? Rifiutarsi di abbassare la testa, di mettersi a tacere. (Le Monde)
Duong Thu Huong (1947) è autrice di diversi romanzi tradotti in inglese e in francese.
Ai tempi della guerra del Vietnam, a vent'anni, ha guidato una brigata della gioventù comunista: è una dei tre sopravvissuti su quaranta.
Ha iniziato a lavorare nel 1975 come sceneggiatrice cinematografica, ma si è ben presto scontrata con la censura. Nel 1987 ha approfittato di una breve apertura del regime per pubblicare "Oltre ogni illusione", edito da Garzanti nel 2004.
Nel 1990 è stata espulsa dal partito comunista e l'anno successivo incarcerata per sette mesi. Di recente ha scelto l'esilio in Francia.
I suoi romanzi, che rappresentano una delle più efficaci testimonianze a favore della democrazia e della tolleranza, sono stati definiti «straordinari e profondamente tragici» («Boston Sunday Globe»), «sorprendentemente potenti» («Los Angeles Times Book Review») e «gemme letterarie che trasudano nitroglicerina politica» («Entertainment Weekly»).
Nel 2005 ha vinto la XXIV edizione del Premio Grinzane Cavour per la sezione narrativa straniera, oltre a un premio speciale, come riconoscimento del suo impegno sociale, a favore della libertà di espressione.
Dalla terra di nessuno è il suo ultimo romanzo.
DISPACCI
Guerra è sempre di Gianni Riotta
Mi capita, qualche volta, di leggere certa narrativa corrente e di provare vera tenerezza per gli autori che si affannano, nel tono e nel ritmo studiati in tinello, a scandire il presente che ci travolge tutti. Parolacce, gergo, sfondamenti nel linguaggio della TV e dei videogiochi, ancora parolacce e gergo, lamenti, cupezza: basta poco per creare la patina di noir che spera di mascherare la banalità della prosa da angoscia del vissuto.
Dispacci di Michael Herr è l'opposto dei romanzetti in voga, d'America o d'Italy. È sostanza pura, il dialetto dei militari è funzionale alla narrazione e la narrazione alla testimonianza della guerra in Vietnam, il calvario di chi vi ha sofferto e la maturazione dell'autore. Non da bamboccio dei videogiochi ad autore coccolato dai talk show, no: da reporter ingenuo e ottimista a uomo consapevole.
Come ammoniva Eschilo, il dolore si distilla in saggezza. È il percorso che rivedrete in queste pagine, definite da John Le Carré "il miglior libro del nostro tempo che io abbia mai letto sugli uomini e la guerra".
Dispacci ha una precisa morale, perché i libri senza morale, che non chiedono al lettore di essere all'ultima pagina diverso da com'era alla prima, servono solo ai club di recensori. La morale di Herr non concede scampo: anche a voi, lettori, competono questo viaggio e questa via crucis, perché, come insegnò il vagabondo Nahum a Primo Levi, "Guerra è sempre".
La guerra è eccitante, è palpitante.
Per coloro che la vivono, è una prova, un'iniziazione, qualcosa di orrendo e detestabile.
Io sono fondamentalmente un pacifista. Penso che non ci sia mai nessuna buona ragione perché delle persone si uccidano tra loro, ma al tempo stesso accetto il fatto che continui perché tutto questo è in noi, e deve esprimersi.
E quello che ogni giorno facciamo per strada attraverso milioni di piccole aggressioni.
E quando le aggressioni sono istituzionalizzate, si ha la guerra.
Michael Herr in un'intervista del 1979 con Michel Ciment per "Positif"